IL CINQUE MAGGIO

Ei fu. Non appena letta la notizia della morte dell’ex imperatore dei Francesi, nel luglio del 1821, Manzoni pose mano all’ode che ne ricordava la figura, e nel giro di pochi giorni era completata, pronta ad avere quella diffusione europea che Goethe auspicava con la sua traduzione. L’ode viene spesso avvicinata alle due quasi contemporanee Marzo 1821 da un lato, e coro del quarto atto dell’“Adelchi”, dall’altro. Diciamo che si completano a vicenda, in una visuale patriottica che vuole esaminare gli eccessi di qualunque genere per illuminarli della fede; come insegnato dall’historia salutis, tradizionalmente guidata dalla divina Provvidenza, che come si sa sottopone i mortali più amati a durissime prove.

In effetti il poeta ci trasporta coi suoi versi sul terreno dell’eroismo: i patrioti che varcano il Ticino sono eroi, come eroina è Ermengardo ripudiata da Carlo Magno; ma è Napoleone, assiso tra Settecento e Ottocento, e tra i due secoli arbitro, a riempire quella dimensione, rispecchiando la volontà del Massim Fattore. Ed ecco che nel ripercorrere gli episodi d’una vita straordinaria, che ha conosciuto due volte gli altari e la polvere impressiona la rinuncia ad ogni magniloquenza, quella cui ci avevano abituato le raffigurazioni del David, e le speranzose affettuosità degli elbani durante i cento giorni; come è evidente il contrasto con lo stile delle giornate trascorse a Sant’Elena, quando l’esiliato passava il tempo principalmente a rievocare la propria gloriosa avventura, Una commemorazione che un qualche modo continua l’incrocio di due vicende umane, quella di Napoleone e quella del Manzoni, che mostrano punti di contatto non comuni.  Si consideri l’episodio che ne è il simbolo, la conversione del poeta, il cui acme viene attribuito al 2 aprile 1810, e al ritrovamento della moglie smarrita tra la folla parigina in occasione del matrimonio di Maria Luisa d’Austria e di Napoleone. La propria conversione viene a prefigurare la napoleonica, pare avvenuta in prossimità della dipartita.

Eppure fra i tanti eventi il poeta del tutto trascura, e non ci meraviglia essendo lui un suddito austriaco, il settore qualificante dell’eroismo descritto così vivamente. Ed è quello importantissimo del Code civil del 1804, della cui centralità lo statista fu ben consapevole oltre che orgoglioso. Si può esser dubbiosi sul fatto che tentasse d’accreditare la propria linea politica, come affermato dal Las Casas per trovare una base di quel bonapartismo che risultò la carta di credito europea spendibile in Francia dal nipote, beneficiato da largo successo; tuttavia non c’è motivo di dubitare ch’egli esclamasse che la propria gloria non andava cercata nell’aver vinto quaranta battaglie, ma nella realizzazione di quel Codice che nessuno poteva cancellare e che eternamente sarebbe vissuto. La legittima appartenenza alla classe delle azioni eroiche di questa redazione si giustifica pensando che Il progetto dell’anno VIII venne discusso in 200 sedute del Consiglio di Stato, delle quali 57 furono presiedute dal Primo console, pronto a intervenire più volte personalmente a sciogliere le questioni giuridiche più aggrovigliate.

E su quello che all’inizio fu chiamato Code civil des Français e poi, con una legge del 1807, Code Napoléon, presentato come baluardo delle civili libertates, possiamo citare, in merito alla ferma attribuzione di paternità, una testimonianza ben atta a restituirci il clima d’enfasi e di mito che dopo aver immediatamente circondato l’evento si è trasmesso ai tempi posteriori: è costituita da una stampa contemporanea al fatto, raffigurante Napoleone nell’impeccabile montura d’imperatore, che avendo alle spalle l’illustre suo predecessore (e ispiratore) Carlo Magno, in piedi vicino a una colonna sulla quale si trova quel libro, e avendo in mano una penna, mostra alla consorte Giuseppina “il Codice che egli ha appena finito di scrivere”, come recita la didascalia posta in calce.

Cosi s’apriva l’età del diritto codificato, perché ogni ramo giuridico veniva progressivamente compreso in un’apposita raccolta di norme ad esso dedicato: dopo il civile, il penale, le due procedure, il commerciale, in quella sequenza logica che sarà assimilata dalla nostra cultura giuridica, con strutture non più abbandonate. Nel frattempo la codificazione era stata realizzata anche dall’Austria, e il suo punto di forza era il l’ABGB, il Codice civile generale del 1811, eccellente prodotto della scuola giusnaturalista di matrice kantiana, che continuava a muoversi nell’Antico regime. Perché, a prescindere dalle singole scelte, era ben diverso da quello francese. Questo fissava il livello semantico proprio del legislatore, situando a mezza strada tra il livello dei princìpi generali e quello delle regole casistiche. Prima d’allora non era raro trovare, negli atti normativi, esortazioni, ammonizioni, incoraggiamenti, con ricorso ad espedienti retorici proscritti come estranei ad un linguaggio che dev’essere fortemente precettivo.

Del pacchetto codificatorio nessun dubbio che la maggiore rilevanza vada assegnata alla sezione civilistica, ed è a proposito di questa che si può continuare a seguire l’incrocio tra le vicende dello statista còrso e del poeta lombardo: il Codice Napoleone s’impose dappertutto come modello, per una sua cifra, un suo stile, del tutto originale. Al di là della lucida giustezza delle sue soluzioni, del suo rigore conseguenziale, della sua coerenza interna, ad imporlo fu anche il nitore della lingua: perfino Stendhal ne rimase affascinato, tanto da dichiarare d’averne tratto ispirazione. E indubbiamente, senza considerare le notevoli qualità letterarie di questo testo, così come esso contribuì a fare la Francia “una e indivisibile”, la commemorazione del famoso personaggio risultò affidata dalla storia a un componimento manzoniano di livello straordinario, sicuro emblema per mostrare come dotare il Paese del solo vero strumento capace di trasformarla in autentica Nazione, la lingua – unica e italiana.

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