A proposito del ciclo sul totalitarismo: verso il secolo cinese?

Uno dei cicli di lezioni organizzati per quest’anno accademico s’intitola “Autoritarismo e totalitarismo tra XX e XXI secolo”; è stato articolato in sette appuntamenti, introdotti ad aprile da Pietro Costa, il quale ci ha parlato delle origini del termine totalitarismo e di come si sia sviluppato il suo paradigma, e chiusi a giugno da Leonardo Morlino con una riflessione sulle democrazie illiberali dei nostri tempi. Nessun dubbio che da tutto ciò siano desumibili osservazioni comparative specie da parte di quel pubblico che è attento ai quesiti proposti da Giovanni Sartori fin dal 1957 sulle definizioni e sull’essenza autentica della democrazia.

Uno speciale rapporto venne instaurato con alcune regioni d’Italia dalla nazione che Marco Polo (tornato a Venezia nel 1295) chiamava Catai; e sempre la Cina è stata fonte di stupore per la cultura occidentale – non a caso Il Milione è sottotitolato Il libro delle meraviglie. Per questo, più che sulle lezioni affidate a Rogari, Nello, Dundovich, Tamburini, in cui s’è dissertato dei regimi fascisti, nazisti, bolscevichi, jihaidisti, richiede particolare attenzione la conferenza tenuta da Andrea Francioni relativa a “Il modello cinese da Mao a Xi Jinping”,.

Il Francioni, professore al Dipartimento di Scienze politiche e internazionali di Siena, comprende tra i suoi attuali interessi di ricerca la politica estera della Repubblica popolare cinese caduta nel 1912 ad opera della rivoluzione Xinhai, il che significa fare riferimento all’imperialismo occidentale nella Cina degli ultimi Qing, o Manciù Qing, Proprio prendendo le mosse da quel momento storico il relatore ha illustrato il tempo della lunga marcia e altre celebri epoche, osservate dagli occidentali con una curiosità ben simboleggiata da locuzioni tipo “enigma Cina”, o chinese puzzle. Attraverso la cosiddetta rivoluzione culturale si giunge alla Cina d’oggi che per alcuni osservatori sembra intrisa internamente d’una razionalità che appare attenta e progressiva. Certamente il modello ha deviato da quello disegnato da Mao, e non è più neanche quello forgiato da Deng Xiao-Ping. Anche se le caratteristiche di fondo restano individuate da alcuni fondamenti del totalitarismo, come una società di massa e il popolo detentore del potere, tuttavia indubbiamente c’è una voglia di democratizzazione che si coglie per esempio nelle candidature indipendenti (filtrate dal partito) nelle elezioni locali di Pechino, e compiti difficili attendono il presidente Xj Jinping e il primo ministro, in corrispondenza con il grande sviluppo industriale e agricolo. La conclamata lotta alla povertà deve combattere contro nemici anche nuovi, come il covid.

Le domande fatte al relatore hanno mostrato l’interesse del pubblico per quanto detto, spaziando dal retaggio del confucianesimo alla politica cinese nei confronti delle aree in via di sviluppo, per esempio dell’Africa. Ma l’atteggiamento dello storico deve necessariamente considerare altri aspetti, in particolare un’espressione consolidata quale il “dispotismo orientale”, che risale addirittura a Platone e Aristotele che contrappongono il governo costituzionale, mirante al bene comune, a quello diretto all’interesse di chi detiene il potere. In quel dispotismo ben avrebbe potuto essere inserito il sistema politico cinese, ma le cose sono alquanto più complicate. Guardarono favorevolmente quel mondo sia il gesuita Matteo Ricci, là dal 1583, sia il politologo Giovanni Botero che sulle relazioni dei missionari costruì la propria giustificazione del sistema dispotico inteso a salvaguardare le strutture statali; più ancora il fiorentino Francesco Carletti, che vi soggiornò al principio del ‘600, infiorava il proprio resoconto di notizie elogiative di tutte le invenzioni che circolano in Cina, relative a ogni arte, meccanica o politica, perché i cinesi sono esperti di filosofia naturale, di matematica e di medicina. e ritengono di essere primi al mondo, tutti gli altri sono “gente barbara”. Non è possibile soffermarsi su altri scrittori, in particolare del Settecento, ma senza dubbio il loro obiettivo era la condanna di quella religione fanatica che moltiplica le ragioni dell’obbedienza ad un regime che non ammette deviazioni, perché il potere dell’unico responsabile del governo si basa sul terrore e non trova alcun limite alle proprie estrinsecazioni.

Due eccezioni a questa imperdonabile lacuna: segnalare quanto ci dice nel Politico alla moda (del 1739, ma lasciato inedito) un grande statista quale Paolo Mattia Doria, puntando sulla selezione dei candidati al mandarinato, i quali debbono passare tre volte un esame rigorosissimo, sostenuto senza l’ausilio di libri; ad essi è affidato l’ufficio di tutori dell’autorità del principe e della libertà del popolo. E le deduzioni traibili dal gustoso dialogo tra un mandarino e un sollecitatore, che compare ad opera di Pietro Verri sul secondo tomo del Caffè; in esso sono evidenziate le pecche della giurisprudenza nostrana, preoccupata da oggetti misteriosi e in fondo inutili che si chiamano fedecommessi.

In definitiva sembra giusto affermare che il confronto tra i due sistemi politici, l’europeo e il cinese, comporta un riesame di tutta la politica tradizionale; e che il secolo che stiamo vivendo sarà, in modo irrinunciabile, all’insegna della Cina, immenso e poco decifrato Paese.

 

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