L’Euro. Vent’anni dopo

Quando è nato l’euro e soprattutto, vent’anni fa, quando ha cominciato a circolare nelle nostre tasche, il campo dei detrattori e degli esaltatori si è diviso a fondo. C’erano quelli interessati, i più, anche se spesso nascosti dietro apparentemente ineccepibili considerazioni scientifiche. E c’erano, in assai minor numero, quelli che disquisivano dottamente ponderandone pro e contro e magari azzardando qualche previsione sulla morte annunciata o sulla sopravvivenza assicurata della moneta unica. Mi limito a dire che oggi, quando i dodici paesi afferenti delle origini sono divenuti diciannove, se l’Europa è entrata nell’immaginario collettivo dei quasi 350 milioni di europei che quotidianamente si scambiano la moneta unica è grazie all’euro. Tutti ne apprezziamo i vantaggi e le certezze che ci conferisce. Anche l’inflazione, che purtroppo è ripartita, è soggetta ad un governo della moneta ben più forte di quello che sarebbe se la nostra vecchia liretta fosse esposta ai marosi come lo fu negli anni infausti della cosiddetta stagflazione. Ne abbiamo tutti il vivo ricordo.

Non sono stati vent’anni di storia facile, tutt’altro. In occasione del decennale, nel 2012, nel pieno degli effetti della crisi finanziaria che rischiava di mandare in default il debito di alcuni stati aderenti, in primis per dimensioni quello italiano, giunse la salvezza per la determinazione del più grande banchiere centrale che la Banca centrale europea abbia avuto dalla sua nascita nel 1998, Mario Draghi. Il suo “whatever it takes” pronunciato in quel torrido luglio del 2012 fu una pietra miliare e uno spartiacque non solo nella storia dell’euro, ma dello stesso processo di integrazione europea. Salvare dal default l’Italia e altri paesi non significava solo salvare l’euro. Era ben di più. Significava salvare dal collasso l’Unione Europea nata a Maastricht nel 1992, altra ricorrenza, questa volta trentennale, che nella cittadina olandese era stata progettata assieme all’euro.

Come Draghi aveva anticipato ai mercati, mandando un messaggio forte e chiaro a quella speculazione che, come nel 1992 per la lira, aveva creduto di arricchirsi dal collasso dell’euro, la Banca centrale aveva i mezzi utili a sostenere il debito dei paesi che rischiavano il default e raffreddare lo spread. Fu un segnale di forza e di supremazia della Banca centrale che dava la misura della distanza da quanto era accaduto alla liretta nel 1992 quando la Banca d’Italia fu sommersa da forze preponderanti e fu costretta a fare uscire la moneta dallo SME. Iniziò allora quella politica di quantitative easing grazie alla determinazione di Mario Draghi che segnò un salto di qualità nella storia dell’euro e della integrazione europea. In realtà, per certi aspetti questa politica ha aggirato il patto di stabilità. Se quest’ultimo richiedeva la rigorosa applicazione dei parametri di Maastricht per perseguire politiche di convergenza finanziaria fra i paesi dell’Unione nel governo del deficit e del debito pubblico, la politica della Bce garantiva il sostegno di debiti ingenti e che, in diversa situazione, avrebbero travolto la stabilità finanziaria degli stati coinvolti. Non era ancora la creazione di un debito europeo, contro il quale si opponevano i rigoristi, ma la strada era aperta.

Poi la pandemia combinata con la innovativa disponibilità della nuova Commissione europea presieduta da Ursula von der Leyen, con Paolo Gentiloni commissario europeo per gli affari economici, ha permesso di superare anche questo ostacolo. Con il programma Next generation EU non solo l’Unione europea ha mobilitato una quantità ingente di risorse, pari a 750 miliardi di euro, per finanziare la ripresa economica dell’Europa colpita dalla pandemia, ma se parte di esse sono a fondo perduto, altre sono garantite dal debito europeo. Niente sarebbe stato possibile di tutto questo senza l’euro.

Ciononostante, alla distanza dei venti anni dall’inizio della sua circolazione e a ventitré dalla  nascita ufficiale dell’euro, si rendono ancor più palesi i limiti di una Unione che non sa decollare politicamente. La debolezza politica dell’Unione, sempre sottoposta al ricatto dei singoli stati afferenti che non intendono cedere sovranità, ha impedito la costruzione di una volontà politica unitaria che dovrebbe presiedere all’Unione economica e monetaria.

Tanto è cruciale questo passaggio che due leader europei illuminati come Mario Draghi e Emanuel Macron hanno rilanciato, traendo spunto dall’aggressione russa all’Ucraina, il progetto che fu di René Pleven nel 1952 della costituzione di una difesa integrata dell’Europa. Nel pieno della guerra fredda e con la guerra di Corea ancora aperta, Pleven progettò la creazione di un esercito europeo integrato con l’imprescindibile corollario di un governo politico dell’Europa. Questo era il punto cruciale in una Europa ancora in fase di ricostruzione e nella quale dominava il dollaro come moneta di riferimento per i cambi e per le transazioni commerciali intraeuropee. La questione della difesa era un punto cruciale dell’agenda, ma non poteva essere affrontata in via autonoma senza costituire un governo integrato europeo, capace di esprimere una politica estera unitaria della quale la politica militare era ed è espressione.

Settant’anni dopo, Draghi e Macron tornano sul punto ed è significativo che lo facciano due ex banchieri. Questa è un’implicita conferma che per la politica monetaria vale lo stesso principio. Nessuno vuol negare l’autonomia della banca centrale nelle sue scelte, ma esse non possono prescindere dal coordinamento generale con un indirizzo unitario e di sintesi di un governo centrale. Come non possono essere i generali a decidere in autonomia le scelte di politica militare, così i banchieri centrali debbono subordinare la politica dei tassi a esigenze generali di stabilità finanziaria dei paesi coinvolti. È lo stesso Draghi, implicitamente, a denunciare quanto ha dovuto fare in solitudine a difesa dell’euro compiendo scelte che erano prima politiche che monetarie. La politica monetaria, salvando l’euro, ha salvato anche tutta la costruzione di Maastricht, ma si è trattato della supplenza a funzioni che sono proprie della politica.

Ora ci siamo di nuovo. Allora, settant’anni fa, fu una guerra lontana dai confini dell’Europa, ma che coinvolgeva le grandi potenze, a fare da stimolo per la definizione del trattato istitutivo della Comunità europea di difesa. Oggi è di nuovo una guerra, che nuovamente coinvolge le grandi potenze, ma si svolge ai confini dell’Europa e ne costituisce una minaccia diretta. Finora la risposta dell’Unione è stata idealmente elevata, ma intrinsecamente debole. Lo status reale di confederazione nella quale tutti i paesi aderenti mantengono autonomia nelle scelte di politica estera ha fatto esplodere le divisioni e ha allungato i tempi di decisioni, come quella sul limite del prezzo del gas, che andavano prese con tempestività. La stessa politica di fornitura di armi all’Ucraina aggredita, a sostegno della propria autodifesa, è stata frammentata e priva di un coordinamento funzionale. Si torna al punto. Qualsiasi grande scelta di politica estera, come militare, come economica e anche monetaria richiede l’esistenza di un governo centrale che esprima un indirizzo. L’euro di Mario Draghi ha svolto un ruolo felice e compensatorio di supplenza al vuoto politico. Ma questo è stato il frutto di un grande banchiere centrale che ha saputo unire alla sapienza tecnica la visione politica globale del futuro dell’Unione. Ma non si deve e non è opportuno affidarsi alle azioni di surroga legate alle scelte di un banchiere centrale. Se il principe è illuminato può supplire; ma se non lo è, la stessa Unione può essere messa a rischio.

In una situazione di normale e corretto rapporto fra politica generale e politica monetaria, avrebbe dovuto essere la prima a guidare e, se necessario, a salvare la seconda in situazione di crisi. Il paradosso dell’Unione è che un illuminato banchiere centrale ha salvato l’Unione salvando l’euro. Non solo. Ha intuito in via anticipata che le politiche del debito, preventivamente allontanate da ogni scenario possibile dai paesi rigoristi, dovevano entrare a pieno titolo nel panorama delle politiche dell’Unione. Tanto aveva ragione e tanto aveva anticipato gli sviluppi futuri che la crisi pandemica ha aperto prospettive in questo senso con Next generation EU. La progettazione e la costruzione di una difesa europea integrata può fare oggi il salto di qualità necessario all’Unione. Di nuovo dobbiamo affidarci a due principi illuminati perché il progetto vada avanti alacremente, ovviando a politiche di riarmo affidate ai singoli stati, dispendiose e prive di pari efficacia. Soprattutto dobbiamo sperarlo per giungere alla costruzione di un governo europeo che restituisca il ruolo e il peso che spetta al nostro continente in un mondo multipolare.

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