La notte del ’43

Poche date della nostra storia hanno assunto il valore di cesura epocale come l’8 settembre 1943 del quale ricorrono gli ottant’anni. E come spesso accade, questi tornanti concentrano al massimo grado la negatività e la positività della vicenda storica. Quanto alla prima fa ormai parte della vulgata nazionale e trova la sua migliore tragica sintesi nel comunicato diramato da Badoglio alle 19,42 dell’8 settembre: ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza: un armistizio diramato come se fosse una comunicazione di servizio.

 Che senso ha l’espressione generica e oscura eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza quando noi eravamo scesi in guerra a fianco della Germania ed eravamo stati suoi alleati fino a un minuto prima? Non solo. Quell’incredibile eventuali nascondeva la convinzione, per breve avvalorata nella notte dell’8 settembre, che i tedeschi non avrebbero reagito attaccando o disarmando le truppe italiane, a Roma e su tutti i teatri di guerra. Gli eroi di Porta S. Paolo e i mille e più caduti della difesa di Roma furono i primi eroi che al comando di un pugno di ufficiali assunsero l’iniziativa e, senza disposizioni precise, cercarono di difendere la capitale seguiti da altri, fra i quali i martiri di Cefalonia.

Da ottant’anni ci chiediamo perché ai comandi territoriali italiani che disponevano delle migliori truppe nei dintorni di Roma, in numero doppio rispetto a quelle tedesche, non furono impartiti gli ordini necessari all’attuazione della direttiva denominata O.P. memoria 44, diffusa in massima segretezza fra il 2 e il 5 settembre, secondo la quale dovevano essere interrotti ad ogni costo i collegamenti dei tedeschi fra il sud e il nord della capitale e si doveva passare all’attacco delle truppe tedesche? Perché il 7 settembre Badoglio impedì il lancio paracadutato alleato su Roma (Operazione Giant 2) con l’argomento pretestuoso che le truppe italiane non erano nelle condizioni di garantire la difesa dei quattro aeroporti deputati, tentando addirittura il rinvio dell’annuncio dell’armistizio? Il men che si possa dire è che i vertici dello stato e del governo, presi dal panico, hanno abdicato alla loro funzione e responsabilità di comando, a danno delle truppe e della tutela del supremo interesse nazionale. È la massima colpa che si può assumere un comando militare e politico, per intendersi il re e Badoglio, capo del governo, tanto più nell’ora della emergenza nazionale.

Fu insipienza? Fu vigliaccheria? Forse tante cose messe assieme che provocarono quello sbandamento nazionale che ripropose quanto di peggio si annida nell’italianità, riconducibile al detto viva la Franza o la Spagna o l’Alemagna, purché se magna. E qui finisce la tragica negatività di quella data culmine della “notte del ‘43” per usare il titolo del racconto di Giorgio Bassani, che riprendo per questa riflessione. Qui inizia quel percorso che Luigi Comencini nel capolavoro “Tutti a casa” sintetizza in venti giorni nei quali il sottotenente Innocenzi (Alberto Sordi) che esordisce dopo l’8 settembre con uno sconsolato “i tedeschi si sono alleati con gli americani” e dismette la divisa, il 28 settembre, a Napoli, mette a disposizione della resistenza improvvisata le proprie capacità tecniche di ufficiale; imbraccia una mitragliatrice e comincia a sparare contro i tedeschi, riconquistando la dignità d’italiano e di soldato.

Qui c’è in nuce tutta la parabola dell’Italia che dal fondo del baratro in cui è stata fatta precipitare, si risolleva e riconquista la libertà assieme all’onore. A Roma nasce il primo Comitato di liberazione nazionale e semplici cittadini fra i quali ricordo Sandro Pertini, Bruno Buozzi, Emilio Lussu, Mario Vassalli, Mario Zagari affiancano la divisione dei Granatieri di Sardegna comandata dal gen. Solinas, i carabinieri della legione di Roma, i lanceri di Montebello e altre formazioni militari nella lotta contro i tedeschi. È una lotta impari nella quale gli italiani, civili e militari, sono costretti a improvvisare, senza un coordinamento con altri fronti, e quindi alla fine ad arrendersi alle 17 del 10 settembre.

In questi due giorni si è consumata la tragedia dell’Italia col definitivo affossamento della monarchia sotto le macerie del fascismo e l’apertura del percorso del riscatto nella lotta di Liberazione. Questo sarebbe stato pagato un prezzo di sangue altissimo, soprattutto da parte di inermi per le numerose stragi nazifasciste, cui noi dobbiamo la nostra libertà.

Perché quel fronte comune di civili e militari che impugnarono le armi a Porta San Paolo per il riscatto della patria fu il viatico del Secondo Risorgimento, anticipazione di quel nuovo incontro fra Stato e società civile che la nascita della Repubblica, il 2 giugno 1946, avrebbe celebrato. In questa chiave, a ottant’anni di distanza, possiamo ricordare con serenità e orgoglio l’8 settembre del ’43, data simbolo a un tempo del disonore dell’Italia fascista e della nuova Italia che risorgeva.

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