Henry Kissinger 1923 – 2023

Heinz Alfred (poi Henry quando si naturalizzò negli Stati Uniti) Kissinger ha avuto una curiosa sorte nella vita. Spesso gli statisti che gestiscono il declino di una potenza sono colpiti da damnatio memoriae: si veda il caso di Gorbačëv. A lui accadde il contrario. La damnatio ha colpito il presidente Nixon che, appena eletto, lo chiamò alla Casa Bianca come consigliere per la sicurezza nazionale (1969), per poi elevarlo, nel suo secondo mandato presidenziale, a segretario di Stato: l’unico del XX secolo nato e vissuto per quindici anni fuori degli Stati Uniti dove si era rifugiato nel 1938, con la famiglia, per sfuggire alle persecuzioni razziali della Germania nazista. Pur straniero e con un inglese che tradiva le sue origini tedesche, Kissinger divenne il grande artefice della politica estera degli Stati Uniti per tutta la stagione nixoniana e oltre, ben prima di assumere la carica di segretario di Stato, al punto che a tutt’oggi si fa fatica a ricordare il nome del segretario di Stato del primo mandato di Nixon, che si concluse con la rielezione trionfale del 1972.

Non solo. Costretto Nixon alle dimissioni dalla presidenza, nell’agosto 1974, per sottrarsi al rischio di impeachment sul caso Watergate, Kissinger mantenne la carica col successore Gerald Ford, il vice presidente subentrante, divenendo la personalità più eminente del gabinetto. Poi, anche se con Carter fu costretto a lasciare la carica (1977), Henry mantenne il ruolo di consigliere di molti presidenti, fino ai nostri giorni. L’ultimo incredibile exploit fu il suo viaggio a Pechino del luglio scorso, a cento anni suonati, e il suo incontro con Xi Jinping. Per un momento il “vecchio caro amico”, per dirla con Xi, era tornato ai fasti del 1971, quando, in missione allora segreta, si era recato da Mao Zedong per riattivare le relazioni diplomatiche con la Cina comunista e per preparare il viaggio che Nixon avrebbe fatto l’anno dopo. Contava il significato simbolico di quel viaggio anticipatore del disgelo che Biden e Xi hanno avviato col recente incontro di San Francisco.

Oggi si tratta di un riavvicinamento, mentre allora, più di cinquant’anni fa, si trattò di una rivoluzione copernicana. In piena guerra fredda, gli Stati Uniti abbandonavano la dottrina del containement ovvero del roll back, muro contro muro, risalente ai tempi di Truman e di Eisenhower, verso la potenza avversaria, l’Unione Sovietica, a favore della dottrina del linkage, ossia della connessione basata sulla interdipendenza delle relazioni internazionali.

La prima rivoluzione era venuta con la dottrina di Guam (1969) espressa da Nixon, ma inspirata da Kissinger, che teorizzava la fine del coinvolgimento diretto degli Stati Uniti nei conflitti a favore del sostegno esterno ai paesi amici nella autonomizzazione del conflitto. In quel momento storico, il pantano vietnamita appariva insolubile, pur con l’impegno diretto di 500 mila uomini da parte degli Stati Uniti, come era accaduto con la presidenza Johnson. Kissinger, applicando la dottrina Guam, teorizzò il trasferimento delle responsabilità militari della guerra all’esercito di Saigon. Non più le due guerre e mezzo teorizzate da Kennedy, come potenziale militare globale americano, ma piuttosto nessuna guerra diretta. I militari americani presenti sul territorio vietnamita scesero a 25 mila, mentre Kissinger trattava a Ginevra l’accordo di pace che fu raggiunto nel gennaio 1973.

Il linkage contemplava la ripresa delle relazioni internazionali con la Cina comunista. Si trattò di un capolavoro diplomatico, accortamente preparato, dando un vantaggio iniziale alla Cina con l’invio a Pechino della squadra statunitense di ping pong, nella certezza che sarebbe stata sconfitta dagli imbattibili cinesi. Poi la missione di Henry e, infine, il viaggio trionfale di Nixon in Cina nel 1972, ricevuto come un imperatore, completarono il disegno.

Questo non servì a risolvere la crisi vietnamita, anche perché il ripristino del confine al 17° parallelo fra Nord e Sud Vietnam, stabilito a Ginevra, era una finzione. Il pragmatismo di Kissinger nascondeva spregiudicatezza e cinismo. Henry sapeva bene che alla fine l’esercito sud vietnamita sarebbe stato sconfitto. Ma, come disse, era necessario fare intercorrere un “ragionevole lasso di tempo” fra il disimpegno americano in Viet Nam e l’entrata dei vietcong a Saigon. In effetti, l’ottenne, perché i vietcong arrivarono a Saigon nell’aprile 1975, ma non fu sufficiente ad allontanare dagli Stati Uniti lo spettro della sconfitta vietnamita. Nixon fu travolto dal Watergate,  scandalo causato da spionaggio nel quartier generale del partito democratico alle elezioni del 1972 perpetrato dal presidente, ma è aperta la questione su quanto la crisi di coscienza americana abbia pesato sull’affaire.

Gli Stati Uniti, per la prima volta nella loro storia, perdevano una guerra e, soprattutto, si vedevano rifiutato il loro modello di vita e di democrazia. La crisi americana era assai profonda e le arti diplomatiche di Henry non salvarono il suo presidente. Ma restava la rivoluzione di Kissinger, l’approccio sistemico e complesso alle relazioni internazionali, il linkage, appunto. Il suo modello è rimasto valido nei decenni successivi e tuttora lo è. Ma è un modello assai complesso e non c’è più la mente di Henry a guidare il gioco.

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