IL MURO DI MERLINO

È vero, per Platone il corpo è il carcere dell’anima. Ma non mi convince l’equazione che a Berlino (città dell’Orsetto) prima del 9 novembre 1989 le anime fossero prigioniere del Muro. Questo afferma nel titolo il libro di Ezio Mauro, già direttore di «Repubblica», Anime prigioniere, Milano, Feltrinelli-Repubblica, 2019. Quel Muro fu una vergogna e un’angoscia europea. Fu necessario abbatterlo per aprire una nuova stagione di unione dei popoli nel nostro martoriato continente. Anzi, come dimostra Sandro Rogari (Oltre il Muro. Trent’anni dopo, nel sito colombaria.it), «si è sbriciolato, quasi senza colpo ferire. Perché apparteneva a un’altra storia, quella finita». Ma quella delle «anime prigioniere» è espressione che mi lascia perplesso, e Berlino non fu un inferno coi suoi gironi. Per 28 anni le Berlino furono due. Approdai per la prima volta in quella West-Berlin divisa fra tre potenze e chiusa entro il recinto di una quarta, con la mia famigliola, composta di moglie e figlia (più tardi si sarebbe aggiunta una gattina), la sera del 14 dicembre 1980. Eravamo entrati nel corridoio con una macchina giapponese stracarica di effetti personali, di libri e di roba inutile, avevamo percorso il lungo tratto nella DDR traballando su una pavimentazione a blocchi di cemento, eravamo riusciti a superare indenni i controlli ai due posti di blocco di Hof e di Dreilinden, rischiando di essere fucilati per incomprensione dei movimenti da fare, eravamo entrati in una città di fate, incurante dell’assedio e tutta eccitata dagli acquisti dei doni natalizi e degli alberi di Weihnachten. Nei giorni successivi con le carte in mano cercavamo indirizzi, uffici, strade, negozi, un asilo per la bambina. Tutto ci sembrava faticoso, estenuante, lento; ma la burocrazia tedesca, puntigliosa e inflessibile, una volta superati gli esami d’obbligo, ti lasciava una libertà di movimento incredibile, che ti rendeva padrone degli spazi e delle istituzioni, libero. Certo, libero entro un hortus conclusus di cui non potevi valicare la siepe offensiva e protettiva. E se ci provavi, seguendo i percorsi di una immensa mappa di tutta la città, finivi regolarmente per andare a sbattere con la macchina contro un muro, un muro incolore, brutto, qua e là reso allegro da colorati graffiti. Ma nessuno andava a piangere sotto il Muro. Lo scansava, con la stessa indifferenza seccata con cui obbediamo alla freccia che in una strada qualsiasi ci obbliga a una deviazione per non disturbare i lavori in corso. I berlinesi di Ovest erano gente serena, con qualche risentimento nei confronti della Russia e qualche mugugno verso i fratelli dell’Est, ma nemmeno tanto contenti di avere in casa carrarmati americani, che ogni tanto andavano a spasso per i viali non centrali della città, tanto per dire che c’erano e che nessuno se lo dimenticasse. Andavano alle feste americane, ovviamente kitsch, con giostre, pop-corn, zucchero filato e banana-split, andavano in fittissime schiere alle mostre d’arte internazionali che spesso preferivano proprio Berlino come prima città (famose quelle sull’esercito cinese in terracotta, sulla Prussia, sui cavalli di San Marco, su Schinkel e su tutto Kandinsky); le numerose biblioteche funzionavano, la nuova Staatsbibliothek Preussischer Kulturbesitz, la Universitätsbibliothek, le biblioteche d’Istituto e quelle rionali e popolari. Le librerie erano ricche e aggiornate, in genere tutti i negozi erano strapieni, i ristoranti e le birrerie accoglienti e aperti dalle sette alle sette, cioè ininterrottamente. I musei erano gratuiti e di domenica erano affollati di famiglie intere con bambini che correvano felici. La Philarmonie era un capolavoro di architettura e la vera casa di Erato. Berlino Ovest era coccolata dalla Bundesrepublik e dal mondo occidentale. Insomma in quella Berlino Ovest si stava bene. Nella nuova, riunificata, megalopoli c’è tanto avvenirismo, ma c’è pure qualche pallottola vagante disposta a colpire passanti estranei a regolamenti di mafia. Ma dentro il Muro c’erano pace ed ordine, se si escludono le storie romanzesche di spionaggi internazionali con epicentro il ponte di Glienicke sulla Havel, le manifestazioni studentesche del ’68 con Rudi Dutschke, il movimento delle Hausbesetzungen e purtroppo il traffico di droga fra i giovani intorno al Bahnhof Zoo. Anche gli animali stavano bene dentro il Muro. «Wildschweine mögen Berlin», titolò una volta un quotidiano, e infatti i cinghiali di notte uscivano dai boschi di Grunewald e andavano a spasso per la città; gli uccelli erano protetti dagli assalti dei gatti domestici e in caso di delitto veniva multato il padrone del felino; fratel coniglietto saltellava per le aiuole intorno alle case dello studente e scoiattoli spericolati facevano l’altalena da un ramo all’altro di altissime conifere innevate, ed erano più bravi degli artisti del Circo Americano e di quello Russo. Non posso negare che qualche umano soffrisse di agorafobia, ma non lo diceva. Un giovane impiegato bancario, nato nella città già murata, mi confessò che non era mai andato ad Est, perché non ne aveva mai sentito il bisogno. E questo non era molto diverso dalla reazione di un pisano di Tramontana alla notizia che era stato abbattuto nel 1944 il ponte di Mezzo: «M’importa assai, non vado mica di là d’Arno!». I berlinesi non hanno mutria, non sono terribilmente crudeli e macchiettistici come li fecero apparire nei film italiani postbellici. Sanno prendersi in giro anche nelle situazioni più tragiche: all’epoca della grande svalutazione del marco, qualcuno si fece fotografare a fumare un grosso sigaro avvolto in una banconota. Nella fase finale della tragedia nessuno urlava canti funebri e si lacerava la faccia, nessuno piangeva, qualcuno era persino sorridente. I soldatini difendevano la città ormai perduta metro dietro metro. Uomini che allora erano giovani raccontano di come la sera occupavano il posto giusto per assistere allo spettacolo di Berlino in fiamme, ovvio senza la cetra di Nerone in mano, ma anche senza versare lacrime di coccodrillo. Quando cessarono i bombardamenti alleati che rasero al suolo la città, tutti uscirono di casa a spalare le rovine e qualcuno si costruiva carretti per far meglio. L’inverno era duro e mancava il riscaldamento; il card. Frings dichiarò che era legittimo appropriarsi del carbone delle ferrovie per riscaldare le case, e allora quel tipo di furto fu espresso da un nuovo verbo derivato dal nome, fringsen. La Berlino chiusa nel Muro è stata un esperimento, un laboratorio di cultura e di resistenza, di operosità, di fede nel futuro, di arte dello sfruttamento di tutte le possibilità che le durezze della storia lasciano aperte all’intraprendenza umana. Non dimenticherò mai la fila velocissima di berlinesi che alle sette di mattina o poco prima arrivava trafelata all’aeroporto di Tegel, per prendere l’enorme bus che li portava in ufficio a Francoforte. Altro che imbarchi anticipati di ore e poi ritardati di altrettante ore! Mancavano dieci minuti alla partenza. Un signore avanti a me nella sinistra aveva la ventiquattrore e con la destra finiva di infilare la camicia nei pantaloni. Poco avanti un altro si attaccava al collo la cravatta alla bell’e meglio. Alle sette in punto, come da orario, il grande bestione decollava. La sera quei pendolari erano di nuovo a casa.

Berlino era divisa, ma bella, era bella di qua e di là, i tigli profumavano dappertutto, il verde straripava, le autostrade cittadine e la ferrovia sopraelevata erano come le arterie di un corpo pieno di vita. Ma si dice comunemente che i suoi abitanti erano prigionieri. Il 13 agosto 1961 quelli della zona anglo-francese-americana si trovarono rinchiusi entro il Muro; eppure c’erano stati anni in cui famiglie e singoli comunisti si erano trasferiti da Ovest ad Est; i cantautori Wolf Biermann e Bettina Wegner pagarono poi la loro scelta di coerenza ideale, lei con il carcere, e tutti e due con l’espulsione dalla DDR. Ma al contrario ci fu anche chi come il caporale diciannovenne Conrad Schumann fuggì rocambolescamente da Berlino Est verso la libertà e molti anni dopo, libero e perseguitato dalla sindrome o dal fantasma del Muro, si impiccò. La Berlino doppia fu una realtà percepibile, ma concettualmente fu un paradosso; ed Ezio Mauro nel suo libro oscilla contraddittoriamente, identificando quella prigione ora nella zona Ovest, ora nella zona Est. Il Muro recinse accerchiati e accerchianti, Ovest ed Est. Nulla di nuovo: i grandi vecchi sapevano che ogni carcere sempre finisce per avvincere galeotto e secondino, vittima e carnefice, e stringerli in uno stesso doloroso destino. Gli uni e gli altri appresero a guardare il mondo attraverso le sbarre; gli uni e gli altri risarcirono la mancanza di aria e le paure nascoste con forme di benessere materiale: a Est con la dittatura assistenziale, casa e lavoro; a Ovest con la babele mostruosa dei beni di consumo del KaDeWe.

Forse il Muro di Berlino fu simile a quello di un mago nordico, che si chiamava Merlino, che si innamorò di una Fata del Lago, che invece non lo amava e che lo rinchiuse a tradimento in un cespuglio di biancospino oppure, col variare delle leggende, in un’arca preziosa o in un Muro immaginario, e lì egli, sepolto vivo, credeva di godere un amplesso infinito con la sua amata e, invece, era tutto un inganno. Dentro i 106 km. della funerea striscia di cemento alta m. 3,60 gli abitanti erano troppo indaffarati per lamentarsi di essere in prigione. E nel metaforico Muro di Merlino, forse forse, i veri prigionieri, stretti da una magia nera, non erano i Wessi, ma gli Ossi. Quella magia impediva loro di andare dalla libertà controllata alla prigione desiderata.

Muro reale e Muro immaginario erano nati da un incubo, sparirono d’un colpo come per un gioco di macchinari scenici. Quando nell’estate del 1991 sono tornato a Berlino senza più la precisazione toponomastica, venendo questa volta dal Nord Europa, fu come entrare in una casa che avesse perduto improvvisamente le pareti e si fossero denudati tutti i suoi arcana pubblici e privati, comprese camere coi letti sfatti.

 

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