Stati Uniti, oggi

Le cronache giornaliere tendono a derubricare in un semplice atto di arroganza e di sviscerato, incontenibile amore per il potere l’ostinazione con cui il presidente Trump non vuole riconoscere la sconfitta elettorale. Certo, la componente caratteriale e gli interessi in gioco colpiti dall’abbandono della Casa Bianca pesano. Ma non sono il fattore più rilevante, né, soprattutto, è ciò che più conta in una prospettiva di lungo periodo. Due sono le tendenze storiche da tenere presenti e che incidono profondamente sull’identità americana. La prima ha natura interna; la seconda internazionale.

È necessario ricordare in premessa che gli Stati Uniti hanno maturato un impegno a lungo ritardato e reticente in politica estera. È facile, ma inopportuno dimenticare che, a parte la parentesi della Grande guerra e solo per gli anni che vanno dal 1917 al 1920, quattro anni scarsi, gli Stati Uniti sono entrati “nell’agone del mondo” solo perché tirati a forza dall’attacco giapponese a Pearl Harbor del 7 dicembre 1941. Il prossimo anno ne ricorderemo gli ottant’anni. In pratica, in quasi duecentocinquant’anni di storia, Washington è uscita dal continente americano per molto meno di un secolo. Il resto è storia di costruzione interna della nazione americana sotto lo scudo protettivo della dottrina Monroe (1823), riassunta nel famoso adagio “l’America agli americani”.

Né sono stati ottant’anni facili in termini di impegno internazionale. I rigurgiti isolazionisti furono forti anche nel secondo dopoguerra. Di nuovo Stalin con il blocco di Berlino (1948) venne involontariamente “in soccorso” all’impegno americano in Europa e nel mondo. L’ottima e pacifica gestione della crisi da parte del presidente Truman concorse a dimostrare che, senza una forte e permanente presenza americana in Europa, l’Unione Sovietica sarebbe divenuta padrona. Insomma, la salvezza del mondo libero restava fermamente legata all’impegno internazionale degli Stati Uniti. Erano iniziati gli anni della guerra fredda che si sono esauriti solo quarant’anni dopo, nel triennio che va dalla caduta del muro di Berlino (1989) alla dissoluzione dell’Unione Sovietica (1991).

Questo non ha comportato il ritiro degli Stati Uniti dall’impegno mondiale. Anzi abbiamo assistito negli anni ’90 al loro ruolo di superpotenza solitaria, vincitrice della guerra fredda e suprema regolatrice delle relazioni globali con le presidenze Bush sr e Clinton. Questa stagione è durata giusto un decennio. L’attacco dell’11 settembre 2001 può essere assunto come data spartiacque, analogamente al 7 dicembre 1941 prima ricordato. Fu la controprova dei limiti della potenza americana, vulnerabile anche in casa propria, come nel 1941, e soprattutto calata sempre più in un contesto multilaterale di superpotenze emergenti. La globalizzazione americana di reaganiana memoria si era rapidamente eclissata. Era iniziato il ventennio dell’incertezza nel quale siamo tutt’ora calati. Incertezza sul proprio ruolo internazionale e sulle pratiche e le direttrici con le quali esercitarlo.

E qui veniamo alle questioni interne. La nazione americana è il prodotto del melting pot della frontiera. Quando si consumò la guerra di secessione (1861-65) in gioco c’erano colossali interessi economici relativi alle piantagioni di cotone e alla protezione doganale dell’industria degli stati del nord, ma ancor più essa si configurò come uno scontro ideale fra l’accettazione universale del principio del “crogiolo” americano, fonte costitutiva della nazione, ovvero la discriminazione etnica. Ha vinto il principio del crogiolo americano che nessuno esclude. Il crogiolo si è esaurito con la frontiera negli anni ’90 del XIX secolo. La elaborazione degli Stati Uniti come potenza oceanica (dottrina Mahan, 1890) volle proiettare fuori dei confini degli Stati Uniti in applicazione della vocazione della nazione dal destino manifesto (dottrina O’Sullivan 1845) la funzione e la natura del melting pot, pur conservando il principio della “non contaminazione” della purezza americana. L’impegno di Wilson nella Grande guerra ne fu la conseguenza. Come lo fu la scelta di Truman con l’Alleanza atlantica.

Oggi la grave crisi americana investe un cleavage profondo della società civile. Il dilemma passa fra chi rigetta la ricerca di un nuovo melting pot che favorisca l’inclusione americana e chi lo vuole affermare. È minacciata da questa frattura la stessa costituzione degli Stati Uniti perché una consistente minoranza rifiuta l’idea stessa di una amministrazione che favorisca un nuovo melting pot. Perciò si fa appello a un presidente sconfitto perché salvi l’America dalla sua stessa ragion d’essere. Ecco perché i tentativi del presidente Trump di restare alla Casa Bianca non sono riconducibili solo ad aspirazioni di potere personale e alla non accettazione della sconfitta. La questione è ben più profonda e l’America si trova di nuovo a fronteggiare una divisione paragonabile a quella nella quale maturò la guerra di secessione anche se di diversa natura. E questo è il motivo per cui il Presidente Biden dovrà fronteggiare un compito assai arduo. In politica interna e in politica estera che, nella nazione del “destino manifesto”, sono strettamente legate.

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