A vent’anni dalle due Torri

Viviamo tempi di grande accelerazione storica. Vent’anni fa, davvero un tempo breve nella storia, l’attacco alle due Torri e la conseguente reazione degli Stati Uniti e dei suoi alleati volle consolidare la tesi del secolo americano che si proiettava in continuità dal XX al XXI secolo appena aperto. Questo sembrava tanto più confermato dal fatto che l’amministrazione Bush jr, con Dick Cheney alla vice presidenza e Donald Rumsfeld alla Difesa, aveva elevato a canone della politica estera degli Stati Uniti la teoria della guerra preventiva, cara alla componente “neocon” del partito repubblicano. Era la teoria dell’1%. Ossia se si ipotizza l’1% di rischio per gli Stati Uniti in qualche area del pianeta, esso andava considerato come certo al 100% e ne giustificava l’intervento diretto e preventivo.

Questa teoria implicava un intervento degli Stati Uniti ovunque e presupponeva una continuità politica rivisitata del secolo americano, apertosi nel 1917 con l’entrata in guerra degli Stati Uniti. Gli Stati Uniti, poliziotto del mondo che l’amministrazione Clinton aveva elaborato in funzione repressiva e pacificatrice da svolgersi, solo in situazione di crisi conclamata, divenivano gendarme con ruolo preventivo.

È di palmare evidenza, a seguito del disimpegno americano dall’Afghanistan, annunciato dal presidente Obama, consolidato negli accordi di Doha del febbraio 2020 del presidente Trump e attuati dal presidente Biden, che venti anni dopo la politica estera degli Stati Uniti ha subito un riorientamento di 180°. Nel 2001, appena entrato in carica, ancor prima dell’attacco alle due Torri, Bush aveva programmato l’intervento in Iraq. Com’è noto, fu solo rinviato per l’11 settembre e per l’immediata e imprevista priorità della questione afghana come sede d’incubazione degli attacchi terroristici. Poi partì la grande campagna dell’individuazione delle presunte armi di distruzione di massa nelle mani di Saddam Hussein, inesistenti, e la conseguente seconda guerra del Golfo.

Fu il secondo grave errore dell’amministrazione Bush jr perché, se l’intervento afghano aveva mobilitato la solidarietà degli alleati, rinforzando la leadership del mondo occidentale detenuta dagli Stati Uniti, questa seconda e non giustificata guerra preventiva segnò la prima grande frattura del fronte della Nato. La rivisitazione del ruolo della Nato in chiave globale e non più sulla frontiera est-ovest, consolidato nell’ultimo decennio del XX secolo dall’amministrazione Clinton, veniva messo in crisi, contraddicendo la prospettiva del rinnovato secolo americano che Bush e il circolo dei “neocon” andavano cercando.

Ma il primo errore era stata l’emotività e la mancata delimitazione della risposta afghana. Il presupposto che l’intero regime di Kabul solidarizzasse con i disegni di al-Quaida di Osama bin Laden non era fondato. A posteriori risulta palese che l’intervento doveva essere globale, ma mirato. Comunque, l’eliminazione di bin Laden in Pakistan nel maggio 2011 doveva preludere al ritiro. Questo avrebbe legato in successione logica e politica intervento e annientamento del primo responsabile dell’attentato dell’11 settembre. La permanenza delle forze Nato per altri dieci anni in Afghanistan hanno, comunque, fatto assumere alla presenza occidentale e soprattutto americana una veste di “forzata esportazione della democrazia” che ora si vuole negare per il fallimento di vent’anni di costosissima presenza, ma che sta nelle cose.

Il consenso interno, indubbiamente maggioritario, al ritiro eseguito dall’amministrazione Biden entro i termini temporali concordati da Trump a Doha permetteranno al presidente di superare la grave crisi di credibilità interna nella quale è incorso. Ma restano le macerie di breve e di lungo periodo prodotte da quello che i media di tutto il mondo hanno rappresentato come una disfatta. La prima maceria è il disimpegno unilaterale a “lavoro non concluso”. C’è il precedente del disimpegno nel Viet-Nam avviato da Nixon nel 1973, che permise l’entrata in Saigon dei Viet Cong solo nel 1975, ossia dopo quel “ragionevole lasso di tempo” ricercato da Kissinger e che avrebbe dovuto preservare – ma non preservò – l’amministrazione Nixon dall’onta della sconfitta. Anche in questo caso, la dottrina di politica estera allora dominante, la dottrina del domino, per la quale se cadeva in mano comunista il Viet Nam sarebbero caduti anche altri paesi come Thailandia, Malesia, Filippine, si dimostrò errata. I regimi comunisti non dilagarono. Ma oggi le conseguenze sulle relazioni fra gli alleati sono più pesanti. Allora restava comunque vivo, attivo ed espansivo il nemico comune, l’Unione Sovietica. Questo permise di superare la crisi grazie al rilancio del confronto est-ovest voluto dall’amministrazione Carter.  Oggi il disimpegno americano potrebbe minare anche la stabilità e credibilità della Nato.

Questo rende urgente l’accelerazione da parte dell’Unione Europea di una politica estera condivisa, almeno sui grandi temi d’interesse globale. L’Europa attualmente è una potenza regionale che delega di fatto la cura dei variegati interessi territoriali di confine alla competenza dei singoli stati che la compongono: non senza potenziali frizioni fra diversi soggetti interessati. Si veda il caso della Libia e quello dei Balcani, per fare due esempi. Ma questo stato di delega permanente trascura il dato sistemico delle relazioni internazionali come strutturalmente si sono delineate nel XXI secolo. Pochi grandi soggetti determinano gli equilibri globali senza che nessuno possa esercitare un ruolo egemone da superpotenza solitaria, come per l’ultimo decennio del passato secolo, con Bush sr e con Clinton, sono stati gli Stati Uniti.

Siamo tornati su scala planetaria a quello che nel XIX secolo è stato in Europa – e in proiezione per il mondo intero –  il “concerto delle grandi potenze”. L’Unione Europea può inserirsi e giocare un ruolo da protagonista con Stati Uniti, Cina, Russia e, forse, in un futuro prossimo India, se si dota di uno strumento militare integrato che svolga le due funzioni fondamentali svolte da una forza armata: la tutela della sicurezza e il sostegno della politica estera globale. È l’antico progetto del piano Pleven (1952) che si ripropone in termini assai simili: se allora era pensato per l’Europa dei sei, oggi dobbiamo ragionare in termini di Europa dei 27. Certamente tutto è molto più complesso.

Ma la questione di fondo, allora come oggi, sono i rapporti con la Nato, ossia con gli Stati Uniti. Non è e non deve essere un rapporto conflittuale perché le relazioni interne alla Nato forniscono un plus agli Europei su scala globale, tanto più in questa fase di transizione. Nel sistema attuale a geometria variabile delle relazioni internazionali l’alleanza fra Europa e Stati Uniti è un pilastro fondamentale di reciproco sostegno. Va semplicemente rivisitata nei termini della pariteticità dei ruoli e della reale condivisione delle decisioni. L’America di Biden, potenza ferita e indebolita, scoprirà presto di avere bisogno dell’Europa nell’agone mondiale. Scoprirà che come l’alleanza con gli Stati Uniti è un plus per l’Europa viceversa l’amicizia con l’Unione Europea lo è per gli Stati Uniti. Ma a condizione che l’Europa ci sia, nella politica globale e nella capacità di sostenerla con lo strumento imprescindibile di qualsiasi politica estera, anche la più pacifica, la capacità d’intervento militare.

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