“La Repubblica tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi”: un nuovo principio fondamentale nella Costituzione.

  1. Un anno fa (il 26 febbraio) è entrata in vigore la legge di revisione costituzionale n. 1 del 2022, che ha introdotto “modifiche agli artt. 9 e 41 della Costituzione in materia di tutela dell’ambiente”.

Va segnalata l’importanza di una riforma che, per la prima volta, ha introdotto un nuovo principio fondamentale nei primi dodici articoli della Carta (all’articolo 9 è stato aggiunto un terzo comma, in base al quale la Repubblica “tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”) e, su tale base – sempre per la prima volta – è stata modificata la c.d. “Costituzione economica”, definita dall’art. 41 Cost. (aggiungendo, come limiti alla libertà di iniziativa economica, il “danno alla salute e all’ambiente”, II co., e prevedendo la possibilità di “indirizzarla e coordinarla” anche “a fini ambientali”, III co.).

Nei primi commenti degli addetti ai lavori, non sono mancati toni critici.

Per alcuni, si sarebbe trattato di una riforma inutile (se non addirittura dannosa), anche perché la revisione si sarebbe limitata ad esplicitare principi già presenti nell’ordinamento costituzionale (con una sovrapposizione pericolosa nell’interpretazione delle norme già vigenti) e avrebbe superato un limite fin qui ritenuto invalicabile, secondo cui i principi fondamentali non sarebbero modificabili, proprio perché destinati a definire il cuore del patto costituzionale.

In effetti, la “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema” (al singolare) era già entrata in Costituzione come materia di competenza legislativa dello Stato, con la riforma del Titolo V del 2001 (art. 117, II co. lettera s). La stessa Corte costituzionale aveva da tempo riconosciuto l’ambiente come “valore costituzionale” (implicito nella tutela del paesaggio – art. 9, II co. – e nell’affermazione del diritto fondamentale alla salute – art. 32) ed aveva individuato l’ambiente sia come limite alle modalità di svolgimento delle attività economiche (art. 41, II co.) sia come “fine sociale” in grado di giustificare programmi e controlli pubblici (art. 41, III co.).

È indubbio che, sotto questo profilo, si tratti di una revisione incrementale di principi già emersi nell’ordinamento.

Ma, proprio per questo, si tratta di una revisione ammissibile sia perché sviluppa principi già vigenti sia perché risponde ad esigenze e valori condivisi da tutti gli strati sociali e politici (non è un caso che la riforma sia stata approvata all’unanimità – nell’ultima votazione, 468 voti favorevoli, 1 contrario e 6 astenuti – senza la necessità di attendere i tempi di un eventuale referendum).

L’inserimento espresso del nuovo principio fondamentale è giustificato anche dall’esigenza di allineare (con ritardo) la nostra Costituzione alla gran parte delle costituzioni nazionali già vigenti: gli studiosi di diritto comparato segnalano che più di due terzi degli Stati affermano i principi ambientali nelle loro Costituzioni, ipotizzando l’emergere di un vero e proprio “costituzionalismo ambientale”. Ma ancor più la riforma si collega ai principi per una tutela solidale del “sistema terra” presenti nelle Convenzioni e Dichiarazioni internazionali (a partire dagli anni ’70) e nei Trattati dell’Unione europea (accompagnati dall’ampia legislazione derivata dell’Unione europea sviluppata a partire dagli ultimi decenni dello scorso secolo).

La revisione costituzionale, nell’esplicitare tali principi, assume un forte rilievo innovatore e, come tutte le norme scritte in Costituzione, ha un contenuto assiologico capace di conformare ed indirizzare l’intero sviluppo dell’ordinamento costituzionale. Come preciso qui di seguito, con questa riforma, la nostra Costituzione assume la consapevolezza del nuovo rapporto che la crisi ambientale impone di ridefinire lo sviluppo dei diritti di libertà e dei diritti sociali nel rispetto dei c.d. “diritti della natura”.

 

  1. In primo luogo, la revisione introduce parole che ampliano la definizione di “ambiente” come oggetto di tutela giuridica e lo indicano come fondamento del patto costituzionale.

È noto che l’ambiente, nella sua dimensione giuridica, fa riferimento ad una nozione complessa (che mutua dalle scienze ecologiche il concetto di sistema – che definisce le interrelazioni tra le plurime risorse ambientali, ivi compresa al suo interno la relazione con l’uomo), trasversale (perché gli interessi ambientali interferiscono con tutti gli altri settori degli interessi giuridicamente rilevanti), multireferenziale (perché coinvolge tutte le realtà della nostra convivenza e tutti i livelli di governo che la rappresentano e gestiscono).

La legge di revisione n. 1 del 2022 aggiunge al termine “ambiente” due concetti importantissimi come quello di “biodiversità” (che indica in biologia “la coesistenza – misurabile con specifici metodi statistici – di varie specie animali e vegetali in un determinato ecosistema; denominata anche come diversità biologica”) ed “ecosistemi” (che costituiscono, in ecologia, un’unità funzionale fondamentale, definibile come l’insieme degli organismi viventi e delle sostanze non viventi con le quali i primi stabiliscono uno scambio di materiali e di energia, in un’area delimitata, per es. un lago, un prato, un bosco ecc.), e richiama anche la tutela degli “animali”,  (come elementi di autonomo rilievo nell’ambito dei sistemi ambientali).

Nella definizione del nuovo principio di tutela, è stata sottolineata l’assenza della menzione del “clima”, così come di altre risorse naturali fondamentali come l’“acqua” e le “foreste”. Ma ciò che conta è l’apertura del principio costituzionale a concetti che l’ecologia ha elaborato ed al necessario rapporto che il legislatore e l’amministrazione dovranno stabilire con le conoscenze scientifiche e tecniche alla base di ogni scelta politica ed operativa in grado di incidere sugli equilibri ambientali.

È stata anche criticata la sovrapposizione, nello stesso contesto dell’art. 9, dei nuovi valori indicati nel terzo comma rispetto al valore “paesaggio e beni culturali” affermato nel secondo comma. A mio avviso, il nuovo testo non impedisce, anzi, chiaramente promuove, un’interpretazione equilibrata delle innovazioni introdotte. Sulla base di quanto specificato dal revisore costituzionale, la natura speciale del paesaggio, nella sua concezione estetica tradizionale, che, ai sensi del II comma dell’art. 9, caratterizza un valore identitario del nostro ordinamento costituzionale, potrà essere liberato dalla visione olistica dell’ambiente, che l’interprete gli ha dovuto attribuire per fondare, fin qui, la tutela costituzionale dei valori ambientali. L’inserimento della tutela dell’ambiente nel terzo comma dell’articolo 9 non può comunque ridurre di per sé la protezione dei valori paesistici (in concreto, la giustificazione ambientale della installazione di campi fotovoltaici e di parchi eolici per la produzione di energia – da oggi basato sul principio fondamentale di tutela dell’ambiente – non potrà di per sé prevalere sulla eventuale necessità di garantire i valori paesistici del territorio; ma la scelta di realizzare infrastrutture per la produzione dell’energia dovrà essere frutto di un bilanciamento basato su procedimenti e istruttorie rigorose e partecipate, capaci di stabilire il punto di equilibrio tra i due principi).

In realtà, la riforma ha un significato che va al di là del tema legato ai valori identitari (quali quelli della cultura e del paesaggio – anche inteso come forma del territorio – di cui ai primi due commi dell’art. 9). La revisione tocca una chiave di lettura innovativa del rapporto su cui si fonda la Costituzione: non più il solo sviluppo dell’uomo e della sua persona attraverso la rimozione degli ostacoli economici e sociali che ne impediscono il pieno sviluppo (secondo la declinazione del principio di eguaglianza sostanziale che definisce il patto sociale su cui si fonda il testo costituzionale – art. 3, II co.), ma anche il riconoscimento della natura come valore in sé (come equilibrio ecologico di cui è parte anche l’uomo), quale elemento fondante l’intero ordinamento.

 

  1. In secondo luogo, si afferma il principio di equità intergenerazionale.

Il nuovo principio fondamentale, nell’indicare l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi come elementi capaci di definire l’intero ordinamento, riconoscono alla natura e alla sua tutela non soltanto un presupposto per l’esercizio dei diritti dell’uomo, ma ancor più la matrice di doveri di solidarietà per le presenti e le future generazioni.

La solidarietà è esplicitata dal richiamo “all’interesse delle future generazioni”; principio che impone una legislazione che si proietti nel lungo periodo, con la consapevolezza di intervenire tenendo conto, da un lato, dei tempi lunghi della natura e, dall’altro, della necessità di gestire il futuro del pianeta con interventi tempestivi, rispetto ai rischi di breve e medio/lungo periodo che la scienza è in grado di prevedere.

L’equità intergenerazionale si collega direttamente al principio dello sviluppo sostenibile, inteso come riconoscimento dei limiti delle risorse naturali e dell’obbligo di non esaurirle in danno delle future generazioni, secondo una logica di solidarietà intergenerazionale che sviluppa il principio dell’art. 2 Cost. (che chiede l’adempimento dei “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”). Si tratta della stessa impostazione seguita nella Carta dei diritti dell’Unione europea, dove lo “sviluppo sostenibile” viene collegato alla tutela dell’ambiente nell’art. 37 (collocato, appunto, nel capitolo IV, riferito al valore “solidarietà”).

La ricostruzione della dimensione giuridica dell’ambiente in termini di doveri di solidarietà esclude che l’uomo possa vantare diritti nei confronti dell’ambiente. Per questo la revisione ha espressamente evitato di accogliere le proposte dirette ad affermare un diritto fondamentale all’ambiente, ponendo l’accento (sul modello dell’art. 20a della Legge federale tedesca) sulla responsabilità di garantire alla presente ed alle future generazioni “le fondamentali condizioni naturali di vita”, essenziali per riconoscere i diritti civili e sociali.

L’impostazione che segue la riforma costituzionale è così in linea con gli sviluppi del costituzionalismo ambientale che vede – nell’era dell’Antropocene – crescere i principi che definiscono le responsabilità dell’uomo rispetto agli equilibri del sistema ambientale e affermano la necessità di un costituzionalismo integrale, capace di rispondere all’esigenza di “ecologismo integrale”, segnalato con grande efficacia da Papa Francesco nella “Laudato sì”.

 

  1. In terzo luogo, la riforma indica l’ambiente come nuovo limite e come nuovo obiettivo dell’economia.

La revisione costituzionale dell’art. 41, in collegamento con il nuovo principio fondamentale dell’art. 9, III co., pone prospettive nuove agli sviluppi della nostra “Costituzione economica”.

Per alcuni, la revisione costituzionale implicherebbe (sarebbe anzi stata voluta, per favorire) la necessità di un ripensamento da parte della Corte costituzionale sulle soluzioni accolte, nel bilanciamento tra i valori costituzionali, dalla nota giurisprudenza sul “caso Ilva” (dove la Corte ha giustificato la prosecuzione dell’attività industriale in presenza di condizioni di esercizio che solo gradualmente siano in grado di ridurne l’impatto sull’ambiente – visto come valore costituzionale da contemperare con gli altri valori come il lavoro e l’iniziativa economica).

Ritengo che la revisione non smentisca l’impostazione che la Corte ha dato ai principi già vigenti. Per la Corte, i diritti fondamentali esigono una tutela “sistematica e non frazionata”, in quanto posti dalla Costituzione “in rapporto di integrazione reciproca”, senza la possibilità di “individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri”. L’inserimento esplicito dei nuovi limiti implicherà comunque la necessità – già affermata ampiamente dalla giurisprudenza costituzionale – di definire il punto di equilibrio, dinamico e non prefissato in anticipo, che il legislatore, nella statuizione delle norme, e il giudice delle leggi, in sede di controllo, debbono effettuare per garantire che non sia sacrificato il “nucleo essenziale” di ciascuno dei valori costituzionali in giuoco. Si tratta di applicare, nell’interpretazione, criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, con un rigore che sicuramente la revisione costituzionale impone di rafforzare.

Nel precisare che le modalità di svolgimento dell’iniziativa economica privata non debbono arrecare danni all’“ambiente” e danni alla “salute”, la norma costituzionale conferma la netta distinzione tra ambiente e salute e può rafforzare quindi la linea giurisprudenziale che, da un lato, ritiene incomprimibili (anche a fronte di rilevanti costi) le esigenze di tutela della salute, mentre riconosce come  più ampia la discrezionalità del legislatore, quando dovrà chiarire – nel bilanciamento con le esigenze delle iniziative economiche e la sostenibilità dei loro costi – quale sia il livello significativo di incidenza sulle risorse naturali e sul loro equilibrio che può dar luogo alla rilevazione di un danno ambientale.

In proposito emerge una delle maggiori difficoltà della disciplina per la tutela dell’ambiente, in cui è indispensabile fare riferimento alle valutazioni tecniche per definire i limiti che l’attività economica non può superare.

La nuova impostazione della norma costituzionale esige comunque scelte coerenti con il sempre più penetrante sviluppo del principio “chi inquina paga”, emerso nel diritto internazionale e nel diritto europeo: il riferimento obbligato è non soltanto alla direttiva UE n. 35/2004 sul danno ambientale,  ma anche  al recente regolamento 852/2020 dell’Unione europea (il c.d. “regolamento tassonomia”) che ha classificato le attività economiche ai fini della loro ecosostenibilità, individuando con chiarezza sia gli obiettivi ambientali da perseguire sia i criteri di vaglio tecnico da rispettare per finanziare gli investimenti. Si apre, con la riforma, un nuovo capitolo sul tema della c.d. “responsabilità sociale delle imprese” e si aprono anche nuove prospettive di azione in sede giurisdizionale per far valere la tutela dell’ambiente.

Anche l’inserimento dei fini ambientali tra gli obiettivi collettivi che permettono al legislatore, mediante programmi e controlli, di indirizzare e coordinare l’iniziativa economica, si collega alla nuova impostazione che proprio l’Unione europea sta avviando nel rapporto tra l’economia e l’ambiente e rilanciano l’esigenza di dare vita ad una programmazione economica, che l’estrema fiducia nel mercato, dettata dalle stesse norme eurounitarie, aveva messo in ombra (per alcuni, l’art. 41, terzo comma, si poteva addirittura ritenere caduto in desuetudine; la revisione rivaluta sicuramente il ruolo dei poteri pubblici nella guida dell’economia).

Con la riforma, l’Italia aderisce all’impostazione della c.d. “transizione ecologica” avviata dall’Unione europea (che l’ha definita, con obiettivi ambiziosi, a partire dalla comunicazione della Commissione n. 640/2019 sul New Deal, e sviluppata nei regolamenti n. 1119/2021, sul clima, n. 241/2021, sul Next Generation UE, e nella comunicazione 14.7.2021 Fit for 55). Non è un caso che l’approvazione della revisione abbia avuto un’accelerazione in coincidenza con l’avvio del PNRR. Ma, su questa scia, si pongono le basi di una impostazione radicalmente nuova del patto sociale: non più un mero “sviluppo sostenibile” (dove il dato portante è lo sviluppo, mentre l’ambiente ne costituisce un limite di compatibilità), ma l’affermazione di una responsabilità ambientale che deve guidare l’economia.

In questo senso si può richiamare l’approvazione della Strategia sulla biodiversità (comunicazione della Commissione n. 380/2020) e dell’VIII programma di azione per il 2030 (deciso il 6 aprile 2022) che indicano una chiara tendenza a mettere in discussione il paradigma tecnocratico ed affermare la necessità della tutela degli ecosistemi e del rispetto della natura come principio fondamentale su cui impostare il nuovo rapporto tra la società umana e l’ambiente di cui è parte.

Negli interventi e programmi citati, l’Unione europea collega significativamente la crescita economica con l’esigenza di raggiungere la neutralità climatica, prevedendo la dissociazione dello sviluppo economico rispetto all’uso delle risorse e sottolineando la necessità di avere un’economia che rispetti il capitale naturale dell’Unione.

Le emergenze derivanti dalla crisi climatica (e purtroppo anche le altre emergenze che derivano da quella che correttamente Papa Francesco definisce “la terza guerra mondiale” in corso), impongono al legislatore e al governo la responsabilità di ridefinire una politica industriale che orienti le attività economiche verso gli obiettivi indicati dall’Unione europea (incentivi alle imprese per scelte produttive e commerciali in grado di ridurre le emissioni; la sostenibilità come criterio base per definire i programmi economici; le norme per favorire l’economia circolare; la disponibilità di fondi pubblici per sostenere i costi della transizione ecologica).

 

  1. In quarto luogo, il nuovo principio fondamentale conferma che la responsabilità ambientale investe tutti i livelli di governo.

Gli obiettivi di lungo periodo, come la lotta alla crisi climatica, implicano, come noto, risposte a livello internazionale ed europeo. Il nuovo principio costituzionale rafforza la necessaria partecipazione al dibattito ed al dialogo in sede di ONU e di UE.

La revisione, nell’ambito interno, non modifica formalmente il quadro costituzionale delle competenze. Ma il nuovo terzo comma dell’art. 9, contribuisce a rafforzare l’idea dell’ambiente come materia dotata di una sua autonomia e di una sua oggettività, tale da giustificare l’interpretazione rigorosa dell’attribuzione della competenza legislativa esclusiva allo Stato nella materia “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema” di cui alla lettera s del secondo comma dell’art. 117 Cost.

La Corte costituzionale dopo un‘iniziale apertura ad un ruolo attivo delle Regioni (sent. n. 407/2002) ha, su tale base, fornito un’interpretazione rigida della riforma del Titolo V, definendo la tutela ambientale come materia in senso oggettivo, rigorosamente riservata come tale alla competenza legislativa esclusiva dello Stato (a partire dalla sent. n. 378/2007). Lo sviluppo più recente della giurisprudenza ha però dovuto prendere atto della complessità e pervasività dei valori ambientali, che interferiscono in tutti gli altri settori delle discipline giuridiche. La Corte è così tornata a considerare la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema come materia essenzialmente trasversale, nella quale lo Stato fissa standard di tutela uniformi sull’intero territorio nazionale, ma non può escludere la competenza regionale ad introdurre norme che concorrono a definire gli equilibri ambientali, di regola nel senso di una maggior tutela (purché non si tratti di deroghe ai punti di equilibrio delle esigenze contrapposte fissati dalla legge nazionale: il riferimento è all’applicazione del principio europeo di sussidiarietà nella politica ambientale – v. art. 193 TFUE e, per tutte, la sentenza della Corte costituzionale n. 198/2018).

La terminologia più ampia utilizzata dal terzo comma dell’art. 9 (non coincidente con quella dell’art. 117), può quindi essere utilizzata per riconoscere un più ampio ruolo di Regioni ed enti locali. Si stabilisce, infatti, che la tutela dell’ambiente è competenza della Repubblica (quindi di tutti i cittadini e di tutti i livelli di governo in cui si articola l’esercizio dei poteri pubblici – secondo l’elencazione dell’art. 114, primo comma, dove si legge che “la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città Metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”). Lo Stato, inteso come apparato centrale, dovrà quindi dare attuazione agli obiettivi costituzionali coordinandosi con gli altri livelli di governo.

Al ruolo centrale dello Stato, nella definizione della qualità degli equilibri ambientali, è corrisposta, in coerenza con la revisione costituzionale, la concentrazione nel Ministero dell’Ambiente (rinominato, in un primo momento, Ministero della Transizione ecologica), insieme alle competenze ambientali, delle competenze del Ministero dello sviluppo economico, riferite alle attività più impattanti quali quelle relative alla produzione energetica.

Ma la riforma del Ministero (e questa conclusione non muta con l’ulteriore nuova denominazione attribuita di “Ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica”) manifesta i suoi limiti nel momento in cui la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi diventa principio fondamentale e quindi impone l’integrazione delle valutazioni e dei valori ambientali in tutte le attività amministrative e legislative dell’ordinamento (la necessità di un più ampio coordinamento è stata riconosciuta comunque con l’attivazione del Comitato interministeriale per la transizione ecologica – CITE,  che oggi – dopo il decreto legge n. 73 dell’11.11.2022 – predispone il “Piano per la transizione ecologica e per la sicurezza energetica al fine di coordinare le politiche e le misure di incentivazione nazionale ed europea”).

Il cambio di paradigma che la revisione ha introdotto implica, in realtà, un modello di organizzazione degli interessi ambientali che faccia più ampio riferimento al principio europeo di integrazione (sancito dall’art. 11 TFUE, secondo cui “le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle politiche e azioni dell’Unione, in particolare nelle prospettive dello sviluppo sostenibile”), con la necessità di attivare procedimenti e formule organizzative in grado di rendere effettivi i principi posti dalla revisione costituzionale.

 

  1. Per concludere.

Il rischio della riforma, come di tutte le norme costituzionali, è quello di rimanere un manifesto senza un’adeguata attuazione nello sviluppo legislativo e nella concreta vita dell’amministrazione.

Nel caso della legge n. 1 del 2022, l’ampio consenso parlamentare non è stato preceduto dalla ponderazione dei suoi effetti sul sistema normativo e sull’organizzazione amministrativa, con la possibilità che all’introduzione dei nuovi principi non segua una adeguata razionalizzazione dei criteri e dei moduli organizzativi per definire le azioni a favore della tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi.

La legge di revisione deve quindi costituire il primo passo di un lungo, ma urgente, percorso, per riordinare il sistema normativo in modo da attivare procedimenti adeguati a consentire l’integrazione delle politiche ambientali in tutte le altre politiche e a definire programmi, istituti e linee guida per tutti gli operatori, coerenti con la nuova impostazione costituzionale.

L’indifferenza fin qui manifestata dalle forze politiche, ad un anno dalla sua entrata in vigore, fa prevedere che il rischio di inattuazione colpisca anche questa riforma.

Ma le parole della Costituzione hanno una forza propulsiva nel lungo periodo e le nuove parole introdotte l’anno scorso non potranno non essere seguite da sviluppi giurisprudenziali e legislativi coerenti con le domande ineludibili che la crisi ambientale pone al sistema politico ed all’intera società.

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