“Donna-Vita-Libertà”: Narges Mohammadi Premio Nobel per la Pace 2023

Il premio Nobel per la Pace 2023 è stato assegnato il 6 ottobre all’attivista iraniana per i diritti umani Narges Mohammadi “per le sue lotte contro l’oppressione delle donne in Iran e la sua battaglia di promozione dei diritti umani e libertà per tutti”, come dichiara la motivazione del comitato norvegese.

Mohammadi è nata il 21 aprile 1972 a Zanjan, città a circa 200 km a nordest di Tehran, che vantava una storia di cultura politica progressista e riformatrice. Iscrittasi alla Facoltà di Fisica di Qazvin, inizia subito un impegno politico quale co-fondatrice dello “Illuminating Student Group” (cioè un gruppo di studio che intendeva gettare luce su problemi sociali complessi), e viene arrestata due volte. Comincia comunque a pubblicare articoli su piccole riviste dedicate a problematiche femminili e più in generale civili e sociali. Nella storia millenaria dell’Iran, le donne hanno sempre svolto un ruolo cruciale, e soprattutto lo ebbero nei 150 anni precedenti il fatidico 1979, con la Rivoluzione che avrebbe dovuto fondare un sistema democratico. Invece, al suo posto, con il dominio teocratico del capo supremo del paese, si manifestarono subito i primi segnali di un disegno retrogrado di restaurazione delle leggi islamiche, di cui divenne paradigma l’obbligo per le donne di indossare il velo (hijab), e comunque di tenere il corpo coperto. Vennero cancellate le timide ma pur significative leggi di protezione della donna del periodo Pahlavi; venne ridotto da 13 a 9 anni di età il limite legale del matrimonio delle fanciulle. Da allora, gradatamente, le donne vengono escluse da ruoli sociali di rilievo e cariche istituzionali; sempre più ristretta a funzioni domestiche e familiari, ancora oggi, anche la vita delle donne iraniane che riescono a ricoprire incarichi pubblici o accademici è tenuta sotto vigile e arcigno occhio dal potere giudiziario.

Per la maggior parte della sua vita, Mohammadi si è dovuta confrontare con le leggi dettate dal principio di “hijab e castità”, leggi molto punitive contro chi viola le regole del vestiario: oltre all’ossessione contro i capelli, il divieto di “mostrare abiti aderenti, o vestiti che rivelino parti del corpo sotto il collo o sopra le caviglie o sopra gli avambracci”.

Contro questo contesto ottuso e severo, la giovane attivista (che intanto si è sposata e ha messo al mondo due gemelli, ora sedicenni che vivono a Parigi con il padre), la cui chioma foltissima e ricciuta, ribelle tanto al velo quanto al pettine, decide di ingaggiare una lotta senza esclusioni di colpi, una lotta impari che la trascina da una prigione all’altra, che la umilia e insulta con frustate e violenze di ogni tipo, fisiche e psichiche: condannata tredici volte, condannata altre cinque a 31 anni di carcere e a 154 frustate. Non curata a dovere quando il suo organismo cede a una malattia neurologica simil-epilettica che le fa perdere controllo temporaneo dell’attività muscolare e funzionalità nervina. Lei non cede. Riesce a tenere contatti, con tenace temerarietà, sia con la famiglia sia con istituzioni giuridiche internazionali. Diviene vicepresidente, in abstracto, del “Defenders of Human Rights Centre” (DHRC) iraniano, una delle associazioni affiliate alla “International Federation for Human Rights”, fondata da Shirin Ebadi, un’altra iraniana Nobel nel 2006. Neppure le tetre celle del tristemente noto carcere Evin di Tehran le mettono il bavaglio mentale e la possibilità di esprimersi. A partire dalla propria esperienza e dalle conversazioni con altre dodici detenute, scrive un libro, una raccolta di testimonianze e impressioni, White Torture: Interviews with Iranian Women Prisoners, pubblicato lo scorso anno, dove rivela, al di là delle capacità di ben collaudata giornalista, anche una buona penna letteraria. È dalla prigione che Narges parla, critica e contesta ciò che sta accadendo oggi in Iran (giudicato dall’ONU il terzo paese al mondo nella deplorevole casistica degli stati che mettono in galera i giornalisti); e lo fa pur sapendo di correre ulteriori rischi, e di procurare intimidazioni del regime alle famiglie delle detenute. In una recente lettera alla BBC scrive che, pur consapevole dei tanti e diversi rischi, è convinta che “non rivelare tali crimini sarebbe contribuire alla loro continuità”. Costretta in una cella sì, ma senza museruola, in un video-audio girato all’interno della prigione, fatto pervenire alla CNN a ridosso dell’annuncio del Nobel, si può sentire la voce di Narges che incita le compagne a scandire lo slogan Zan, Zendegli, Azadi (Donna,Vita,Libertà). Il video è interrotto da un breve messaggio automatico, “Questa è una telefonata dalla prigione Evin”, e poi la registrazione riprende con il coro delle prigioniere che cantano in lingua Farsi il ritornello del nostro Bella ciao.

L’assegnazione del Nobel per la Pace a Mohammadi, esattamente un anno dopo l’omicidio di Mahsa Amini, la ragazza di ventidue anni arrestata e poi uccisa dalla polizia religiosa per aver lasciato un ricciolo fuori dal velo, potrebbe rallentare le ondate di proteste che si sono scatenate in Iran non solo tra le donne, ma in tutte le comunità, contro la teocrazia iraniana, contro la repressione del regime e la violenza della polizia? Chissa? Da un lato, troviamo la fiducia ottimistica del comitato norvegese di assegnazione del premio: “Il riconoscimento è considerato rivolto a un intero movimento in Iran di cui [Mohamaddi] è leader indiscussa”; oppure, in casa nostra, di Shahrzad Sholet, rifugiata in Italia da quarantadue anni, presidente dell’Associazione “Donne democratiche iraniane in Italia”: “È un riconoscimento della legittima resistenza del popolo iraniano in questi quarant’anni di regime misogino”. Ma da un altro, opposto lato, c’è la posizione ufficiale del regime di Tehran, che ha contestato acidamente il premio: “L’azione del Comitato per l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace è una mossa politica in linea con le strategie interventiste anti-iraniane di molte cancellerie europee […] Il Comitato ha conferito il premio a una persona arrestata per ripetute violazioni di legge e atti di criminalità, e perciò lo condanniamo in quanto ideologicamente orientato e politicamente motivato”.

E allora? Non c’è che ascoltare Narges Mohammadi, in un piccolo florilegio di sue importanti dichiarazioni rilasciate su vari canali:

Non smetterò mai di lottare per la democrazia, la libertà e l’uguaglianza in Iran, anche se trascorrerò il resto della mia vita in prigione. Resterò al fianco di tutte le coraggiose donne iraniane contro la discriminazione, la tirannide e l’oppressione, finché saremo libere. Il Premio Nobel mi renderà più forte, più determinata, più entusiasta, più ottimista. Ai miei figli dico che avete il diritto di non vivere in un paese i cui capi non riconoscono la vostra infanzia e persistono nel ferire il vostro spirito puro. Forse in un’altra terra troverete pace e sicurezza anche in mia assenza.

 

Lascia un commento